Per imparare a volare

Sono un’alunna di quinta e frequento il liceo scientifico tradizionale. Negli ultimi giorni di scuola, naturalmente in didattica a distanza, durante una lezione scolastica, una docente ha somministrato alla mia classe un compito apparentemente semplice, ma che si è rivelato assai arduo: noi alunni siamo stati chiamati ad invertire i ruoli e a fingere di essere degli insegnanti, che dovevano parlare ai propri ragazzi, dopo mesi di DAD. 

Mi sono sentita destabilizzata, non tanto perché non comprenda la situazione, bensì per il fatto che mi sono resa conto di quanto sia difficile dare forza a chi ci sta intorno, soprattutto in questo periodo di continue ed inarrestabili incertezze. Ho fatto fatica, ma ci tengo a condividere la mia lettera, perché ritengo che, in fondo, racchiuda un messaggio di speranza speciale, che io stessa avrei bisogno di sentirmi dire e di leggere. Forse, anche i professori, ogni tanto, avrebbero la necessità di essere rassicurati e cullati da queste parole. 

 

“Cari Studenti,

come ho sempre creduto, torna il sole anche dopo una terribile giornata di pioggia. Ora non siamo in grado di percepire neppure uno spiraglio di luce, ma sono certa che, prima o poi, torneremo a guardarci negli occhi e ad osservare i nostri sorrisi, con quella spontaneità che ci ha contraddistinti in ogni momento. A volte, vorrei sapere cosa sia giusto dire per incoraggiarvi e per farvi comprendere quale sia la strada giusta da intraprendere di fronte a questa pandemia, ma ritengo che seguire la voce del mio cuore sia il sentiero più onesto e sicuro. Vorrei affermare che io non ho paura, ma, purtroppo, non è così: sono terrorizzata dall’idea di contrarre il virus e di contagiarlo alle persone che amo; sono spaventata dal fatto di dover continuare a fare lezione dietro allo schermo di un computer, senza potervi sentire vicino; sono traumatizzata a causa delle numerosi morti e perdite, tuttavia non mi vergogno a mettervi al corrente di tutto ciò, perché sono convinta che la condivisione sia il cardine fondamentale per contribuire ad una nuova rinascita. Ho paura, è vero, ma non per questo ho smesso di sognare e di sperare: vedo ancora – a tratti – i vostri volti sorridenti tramite le icone di Meet e apprendo che, forse, un po’ di normalità è ancora presente; cammino per casa e incontro le persone che amo, e in pochi sanno quanto mi senta fortunata; non ho perso il lavoro e posso sempre contribuire a donare un futuro roseo alla mia famiglia.

Cosa mi manca, dunque?

La libertà, certo, ma quella è stata tolta a tutti. Ci siamo trasformati in leoni in gabbia, ma sono sicura che, a breve, avremo la capacità di guardare con occhio diverso, forse più attento e acuto, questa situazione, fino ad arrivare ad accettarla. Il tempo scorre, scappa e fugge, ma non per questo dobbiamo credere che tutto sia finito e distrutto. Abbiamo bisogno di volare con la fantasia, senza mai trascurare i nostri ideali e valori fondamentali, anche se le ali ci arrecano tanto dolore, in alcuni istanti.

Io, come ben sapete, ci sono e ci sarò sempre per voi: abbiamo costruito insieme case di pensieri, con mattoni d’affetto, dando vita a solide basi. Dobbiamo soltanto imparare a volare, insieme, anche di fronte alle avversità.

Vi sono vicina.

Un caro saluto ed un magico abbraccio virtuale.

La vostra Professoressa”

Vittoria Prazzoli

  • : Italia
  • : Borgonovo Val Tidone (PC)
  • : 18
  • : Studentessa presso il Liceo Scientifico Alessandro Volta

La filastrocca assegnata

Ho 9 anni e mezzo e frequento la quarta elementare. La mia maestra ha assegnato il compito di inventare una filastrocca sulla primavera e così…

 

Strana questa primavera

Strana questa primavera

Che arriva nel freddo e non sembra vera.

Sempre a casa con la scuola chiusa,

Io mi sento un po’ confusa:

Dove sono le passeggiate al mare?

Con le amiche vorrei tanto andare.

Raccogliere fiori in un campo colorato

Ora è un sogno non avverato.

Davanti a un computer tutto il giorno, 

La primavera la vivo in soggiorno

Guardando un quadro appeso al muro,

Dipinto con il chiaro-scuro.

La primavera arriverà,

Voglio pensare che così sarà.

  • : Presicce-Acquarica
  • : Presicce-Acquarica
  • : 9
  • : studentessa

L’affetto che mi riscalda il cuore, la voce che mi rassicura

Mia cara nonna,

ti scrivo questa lettera per ringraziarti per ogni sorriso che mi hai regalato e per esserti emozionata di fronte a ciascun mio nuovo traguardo raggiunto, come se fosse il tuo. Ti devo dire grazie per essermi sempre stata accanto, anche quando mostravo disinteresse. Grazie per aver accarezzato la mia emotività e per essere molto più importante di una semplice nonna per me: sei la mia maestra di vita. Grazie per avermi sostenuto costantemente, persino in quelle imprese che reputavo impossibili da affrontare, e per avermi dato fiducia. Grazie perché, se oggi scrivo ancora, senza mai abbandonare questa passione, è anche merito tuo: non hai mai smesso di credere nelle mie potenzialità, cercando di farmi catturare un flebile spiraglio di luce nell’oscurità della notte, come se fosse un mio bersaglio fotografico. Grazie per aver tentato di trasformare le mie insicurezze in punti di forza e per esserti preoccupata per ogni mia caduta, per poi aiutarmi a rialzare e a curare le ferite.

Negli anni, sono cresciuta e sono diventata più ribelle e scontrosa, ma non ho mai smesso di essere quella bambina sensibile e sognatrice che tanto si divertiva a stare tra le tue braccia. Non riesco a dimenticare tutte quelle giornate trascorse al tuo fianco a potare i fiori e ad abbuffarmi tra le tue prelibatezze culinarie.

Spero di essere la nipote che desideravi avere: non sono perfetta, ma ti prometto che ci sono e ci sarò sempre per te; non trascurare mai queste mie parole. Stiamo affrontando un periodo particolarmente difficile, demoralizzante, e non è facile trascorrere del tempo insieme, a causa del Covid, ma ti assicuro che sarò pronta a starti accanto in qualsiasi momento, come hai sempre fatto tu con me. Sei la mia nonna meravigliosa: la mia roccia, il mio porto sicuro in cui so di potermi riparare di fronte alle tempeste e alle avversità. Sei l’affetto che mi riscalda il cuore e la voce che mi rassicura lungo il cammino.

La tua fragile nipote,

Vittoria

  • : Italia/Borgonovo Val Tidone
  • : Borgonovo Val Tidone (PC)
  • : 18
  • : Studentessa presso il Liceo scientifico Alessandro Volta di Castel San Giovanni

L’Ecologia del tempo nella sostenibilità relazionale delle nostre scelte

Il rischio è quello di tornare indietro? 

Quando riusciremo a superare questa nuova fase avremo di nuovo fame e sete di lavoro, relazioni,contatti,spazio,movimento. Le necessità sociali primarie terranno caldo e dinamico il nostro contesto glo-cale.

Non tutti troveranno la propria posizione di lavoro, non tutti la troveranno come prima, tutto questo si andrà ad aggiungere a chi il lavoro non ha mai smesso di cercarlo.

Quali soluzioni allora?

Chi governa i processi sarà in grado di accompagnare tutto questo verso una nuova evoluzione pro-positiva?

Abbiamo già visto tra la prima e la seconda ondata che se da una parte il lockdown sembrava ormai essere alle spalle, la tendenza era quella di vivere come e quasi se non ci fosse mai stato.

Le misure blande dell’estate 2020 hanno favorito questa percezione non scritta ma condivisa che fosse tutto passato: bisognava correre per recuperare il tempo perduto, ma il tempo è stato veramente recuperato ?

L’esigenza di riprendersi “la libertà sospesa, di dover lavorare con una super velocità per recuperare economicamente il tempo perso, non ha dato tempo e modo di metabolizzare fino in fondo quanto accaduto.

La tentazione di dover accelerare sappiamo quale risultato ha portato.

Distanti e non curanti del senso di questo tempo siamo pronti più di prima a fare la stessa cosa, ma questa non può essere la soluzione.

Il rischio sarebbe proprio quello di tornare indietro.

Se da una parte è giusto fare di tutto purché non venga persa la propria posizione lavorativa, dall’altra dovrebbe essere logico proprio come misura sociale quella di calibrare i ritmi e accompagnare l’evoluzione con una graduata decompressione.

Il prendersi cura di se stessi, della propria salute,avere più tempo per la propria famiglia,per i propri cari, prendersi cura del vicinato,del quartiere,delle vecchie e nuove esigenze della propria città dovrebbero accompagnare a ritrovare il senso di quanto vissuto, senza risparmiare il proprio lavoro chiaramente, magari solo qualche ora, purché quell’ora di lavoro non manchi a nessuno, anzi sia un investimento moltiplicato purché si riesca a fuggire dalla frenesia del “tempo accelerato.”

La ricerca e la cura delle relazioni dovrebbero integrare la nuova fase economica che, pur augurandoci possa presto andare verso una via di ripresa, da sola non può e non potrà bastare per bilanciare e sollevare le sorti comuni durante e dopo la pandemia.

l’attenzione reciproca e la cura del benessere della persona e della comunità dovranno quindi essere gli ingredienti fondamentali per accompagnare il nuovo tempo che ci aspetta.

  • : Matera - Italy
  • : Matera
  • : 31
  • : Artigiano - Animatore di Comunità

Ci voglio credere PT2

Ciao caro diario, scusa se sono stato assente in questi mesi, ti ricordi quando ti raccontai di un sogno dal nome “ci voglio credere”, oggi sono venuto a mostrartelo sai, ce l’ho fatta veramente!

Sono venuto anche a raccontarti che sono ritornato a casa questa estate, non ci speravo tanto perché la situazione sembrava peggiorare, invece un giorno il Presidente del consiglio ha dichiarato il Lockdown e tutti sono rimasti a casa, i numeri sono calati, e quasi per magia mi sono ritrovato tra le braccia della mia famiglia, abbiamo riso tanto e dormito poco, eravamo felici di stare insieme, forse perché non sapevamo quando avremmo potuto rivederci nuovamente.

Oggi siamo nella stessa ed identica situazione, io ho nuovamente paura di non poter ritornare a casa, di passare il Natale da solo, di non sentire il calore del fuoco e degli abbracci, ho paura di ritornare a ridere con i miei amici dietro un fottuto schermo, solo perche la gente è cambiata, perché non hanno più paura di uscire, o ammalarsi. Oggi si ha più paura di perdere il lavoro e non portare un pezzo di pane  a casa, io capisco, e mi piange il cuore tutte le volte che accendo la televisione, cosi la spengo subito e mi fermo a pensare.

Se domani mi chiama mia madre dicendomi che è positiva solo perché io continuavo ad andare a lavoro?

Se domani mi chiama un ospedale dicendomi che mio figlio è positivo solo perché veniva insieme a me in piazza a protestare?

Se domani mi chiama mia moglie  dicendomi che non possiamo vederci solo perché io continuavo ad andare in giro con la mascherina abbassata?

Mi piange il cuore solo al pensiero, ma forse meglio piangere al pensiero che morire dal dolore.

#iorestoacasa

  • : Presicce Acquarica
  • : Bülach
  • : 27
  • : Saldatore

come state ? | cómo estás ? | how are you ?

Cari lettori e scrittori di Covidiary19,

dopo più di di sei mesi, da Almerìa e Huelva ci ritroviamo finalmente nel cuore del Salento !

Questo messaggio, innanzitutto per ringraziarvi:

grazie per aver aderito al nostro progetto, grazie per averci supportati e per averci creduto, grazie per esserci stati vicini, da lontano.

Come state ? Come state vivendo questo periodo ? Che sensazione avete provato a riabbracciare le persone a voi vicine ?

Sarebbe bello leggere la continuazione delle vostre storie.

Il nostro progetto è quasi giunto al termine ma non possiamo ancora svelarvi nulla. 🙂

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Queridos lectores y escritores de Covidiary19,

después de más de seis meses, desde Almería y Huelva nos encontramos por fin en el corazón de nuestro Salento (sur Italia) !

Este mensaje, en primer lugar para agradecerle:

Gracias por unirse a nuestro proyecto, gracias por apoyarnos y creer en nosotros, gracias por estar cerca de nosotros, desde lejos

¿Cómo está estás ? ¿Cómo estás viviendo este período? ¿Cómo te sentiste al abrazar a las personas cercanas a ti otra vez?

Sería bueno leer la continuación de tus historias.

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Dear readers and writers of Covidiary19,

after more than six months, from Almerìa and Huelva we finally find ourselves in the heart of Salento (south Italy) !

This message, first of all to thank you:

thank you for joining our project, thank you for supporting us and believing in us, thank you for being close to us, from afar.

How are you? How are you living this period ? How did you feel when you hug the people close to you again ?

It would be nice to read the continuation of your stories.

No, noi non siamo angeli, siamo persone comuni, come tutti

In questo momento di crisi, di debolezza e di paura noi di CRI abbiamo deciso di mostrare tutta la forza che il volontariato ci trasmette per portarla a nostra volta a casa degli anziani, la fascia più debole della nostra popolazione, quella più sola, a disagio, in pericolo. 

Oramai da qualche settimana andiamo a portare spesa, farmaci e beni di prima necessità a coloro che, il giorno prima, ci contattano al numero del centralino.

È un’attività durante la quale è importante creare un rapporto basato su dolcezza e comprensione con l’anziano, instaurando una breve conversazione, gli chiediamo come sta, se è sola/o, se ha bisogno di qualcosa, lo consoliamo in caso non abbia nessuno con cui parlare e cosa più importante gli lasciamo grandi sorrisi (da dietro la mascherina) sperando di rasserenare la loro giornata. 

Alla fine del turno mi sento sempre sollevata, serena, in pace, perché so di aver fatto del bene e, anche se per poco, di aver fatto star bene una persona. 

Nonostante ciò è proprio durante queste attività che ci si accorge di realtà quali solitudine e tristezza, che sono spesso lontane dalla famiglia felice. E’ come se la realtà ti desse uno schiaffo in pieno viso quando si osservano le condizioni di un anziano solo, magari che non vede bene, che ha problemi di deambulazione o semplicemente che non parla da giorni con nessuno e non può uscire… è qui che io volontaria mi sento più utile, nel portare tra quelle mura tristi e umide, un sorriso, un po’ di comprensione e tutto ciò di cui la persona ha bisogno. 

È un compito importante, in questo momento essenziale.

Iniziamo il primo turno, arrivo in sede e mi munisco di mascherina chirurgica e guanti. 

Prendiamo le missioni che il giorno prima ci hanno preparato e vi! Sul mitico pandino della CRI

Una volta per strada andiamo di casa in casa… al primo citofono… “Salve signora, sono Giorgia della Croce rossa. Siamo qui per la spesa”… e la sua risposta “prego prego, salite, terzo piano” – sempre io “grazie signora, metta la mascherina”. Arriviamo sul pianerottolo “Mi scusi non mi posso avvicinare ma, come sta? Lei è sola?” dico mentre mi consegna soldi e lista della spesa.

Dalla mascherina noto le rughe dell’enorme sorriso che nasconde lì sotto e la voce squillante e allegra che tradisce la sua felicità nel vedere qualcuno per la prima volta dopo tanto tempo… sentendo la mia domanda un po’ si spegne, la voce più profonda “si signorina, io sono sola… e come sto, beh, si tira avanti … mi sento un po’ sola ogni tanto e parlo con lo specchio ahah, le sembrerò matta, ma rende tutto questo meno pesante” 

E io, cuore in gola ascoltando queste parole, provo a consolarla ritardando di 2 minuti pur di parlare con lei, per allontanarle momentaneamente la solitudine. È allora che mi dice del marito, che è venuto a mancare poco tempo prima, mi fa vedere la sciarpa che sta facendo con lana e perline, mi racconta che ha ancora i vestiti di lui in casa, il suo profumo, insomma, è come se fosse ancora con lei.

Il suo tono torna squillante e riprende “il vostro lavoro è davvero prezioso, posso chiamare un’altra volta?” – io replico senza pensarci due volte “ma certo signora! Quando vuole, per ogni esigenza. Allora ci vediamo quando torno a portarle la spesa e i farmaci. E ricordi che non è sola, per qualsiasi cosa ci siamo noi.” 

La dolcezza di questa signora, le lacrime a stento trattenute quando parla del marito, la solitudine che si legge nei suoi occhi, nei gesti, nella voce. Il suo ringraziarvi milioni di volte dopo che le abbiamo portato la spesa, il suo volerci offrire a tutti i costi una caramella perché se no -sue parole- “ci resto male io!”, tutto questo è speciale. 

 

La casa dopo, durante il secondo servizio, sembra una di quelle dei film, non credi che quelle realtà esistano sul serio fino a quando non le vedi. 

Il citofono non funziona, la porta dell’ingresso è aperta. Entrando odore di gas, polvere e cibo vecchio … sporco ovunque … sembra una casa disabitata, un po’ inquietante, da Horror.

Arriviamo alla porta con il cognome della signora, ci è segnalato che è ipovedente, infatti dopo aver bussato ci apre senza mascherina dicendoci che non la trova, perché non ci vede, la tristezza in lei che cerca solo comprensione.

Chiede così ” Entrate che mi date una mano” e noi “Signora non possiamo entrare, è per la sua salute, però guardi, faccia con calma e “cerchi” la mascherina. Nel mentre ci prepara la lista della spesa e i soldi okay?” 

Mentre aspettiamo cerchiamo di instaurare una conversazione “Come sta? E qui da sola? Ha qualcuno con cui parlare ogni tanto?” – e allora lei – “qui sono sola, faccio un po’ fatica, mio figlio abita lontano però mi chiama tutti i giorni, almeno chiacchiero un po’ … grazie a voi però riesco a fare la spesa, sapete, mio figlio non può venire”, noto che fatica a parlare, ad articolare correttamente le parole, sicuramente questa signora avrebbe bisogno di un grosso aiuto, purtroppo io adesso posso fare poco, ma so che per lei è tantissimo, questo mi solleva.

Nonostante non volessi mi è caduto l’occhio sulle condizioni di vita di questa signora, pavimento sporco, abiti ammucchiati sul piccolo divano in pelle, la finestra chiusa nonostante il sole splendente fuori.  

Attendendo che la signora torni con la mascherina dal corridoio si sentono delle grida in una lingua straniera, colpi contro il muro, sedie sbattute e dopo qualche minuto esce dall’appartamento adiacente un ragazzo affannato, ci guarda stranito e ritorna dentro, le grida ricominciano e non terminano neanche quando ce ne andiamo.

Non posso sapere cosa sia successo ma in quel momento ho sentito un brivido, sono riuscita a percepire come per tanta gente stare in casa equivale a stare in una prigione, una tortura, una gabbia da cui non si può uscire

Torna la signora, ci ringrazia almeno 100 volte, ci chiama angeli. 

No, noi non siamo angeli, siamo persone comuni, come tutti… ognuno di noi ha paure, difetti, ansie, però ci mettiamo a disposizione del prossimo, mettiamo in gioco le nostre capacità, tutto quello che possiamo, per portare anche solo un sorriso dietro una mascherina.

  • : Cairate, (VA)
  • : 19
  • : Studentessa e volontaria CRI

È un sospetto Covid, agisci come da protocollo

Sono le otto meno dieci, ho appena preso lo spruzzino Sandik per igienizzare la divisa. Manca poco alla fine del turno, stiamo aspettando solo l’equipaggio che ci avrebbe dato il cambio per fare la notte.

*Driiiiin Driiiiin Driiiiin*

EMMA inizia a suonare. EMMA è il nome del sistema che ci invia le missioni, è la donna di cui nessun soccorritore in questo periodo vuole sentire la voce.

Subito dopo squilla anche il telefono di servizio

“Ciao, sono Carolina, dimmi…”

“Ciao, è un sospetto Covid, agisci come da protocollo.”

Nonostante ormai siamo abituati a ricevere queste chiamate, un brivido mi pervade la schiena.

Prendo il telefono di servizio e mi avvio verso l’ambulanza. Oggi sono capo equipaggio, come ultimamente mi capita spesso.

In ambulanza noi volontari siamo abituati ad uscire in tre: autista, capo equipaggio e terzo soccorritore. Ciò significa che si crea una certa coordinazione, nonostante ciascuno è in grado di fare tutto il necessario, ci si divide i compiti per rendere il servizio più efficace e veloce. L’autista, oltre a guidare, di solito è si occupa del preparare i presidi per il trasporto del paziente. Nel frattempo il capo equipaggio ed il soccorritore si approcciano al paziente, il primo facendo tante domande per capire la situazione, il secondo prendendo i parametri vitali.

In questo periodo ogni uscita, o quasi, necessita di essere trattata come sospetto Covid-19, quindi, per risparmiare i dispositivi di protezione individuale, inizialmente solo il capo equipaggio si prepara ed entra in contatto con il paziente, ricoprendo tutti e tre i ruoli.

Io ho fatto l’esame per accreditarmi come soccorritore relativamente da poco, in uscita fino a gennaio ho fatto il terzo, a inizio febbraio ho iniziato ad uscire come capo equipaggio, spalleggiata dalla mia squadra, che mi accompagnava con l’esperienza, mi faceva notare cosa poteva essere fatto diversamente.

A fine febbraio è arrivato il Covid ed è cambiato tutto. Non ho nessuno a fianco, devo ricordare tutto da sola.

So di essere in grado, ma la paura c’è sempre.

L’autista è la mia caposquadra, mi volge uno sguardo dolce e mi chiede se sono pronta. Sa anche lei che ho poca esperienza, ma dice sempre che sono una tosta. È preoccupata e si vede, ma so che crede in me.

Apro il portellone laterale dell’ambulanza, prendo tutto il necessario per prepararmi ad uscire. Indosso un primo paio di guanti e il tutone in Tyvek bianco, come quelli che si vedono in TV, che mi sta largo come sempre, ed inizio a sentire il caldo. I miei colleghi mi allacciano la cerniera e mi infilano i calzari. Lego i capelli e indosso la mascherina FFP2 e la maschera per gli occhi, che intanto si è già appannata. Indosso il secondo paio di guanti e mi sigillano la tuta.

Mi chiedono se sono pronta, io sorrido anche se non si nota e alzo il pollice. Sono sempre positiva.

Si parte, è un codice giallo, accendiamo la sirena.

In ambulanza scrivo ad un mio amico, è anche lui un soccorritore, lo fa da tanto tempo più di me, anche lui è preoccupato per me nonostante ne abbia viste tante, mi dice di stare attenta.

Mando un messaggio anche ai miei genitori, che mi stanno aspettando per cena, dicendo che arrivo in ritardo perché siamo usciti a fine turno.

La mia autista mi dice che siamo arrivati, mi guarda e mi chiede una volta ancora se sono pronta.

Non si è mai davvero pronti, ma dico sì.

Scendo dall’ambulanza, prendo il necessario per provare i parametri e mi avvio. Suono il citofono:

“Salve, sono Carolina, della Croce Rossa.”

Mi aprono, salgo due o tre rampe di scale, arrivo fino ad una porta aperta, c’è una donna che mi sta aspettando.

Come di prassi chiedo cosa sia successo, anche se dentro di me già lo so. La donna mi porta in camera dal marito. Mentre prendo i parametri e li registro sul telefono di servizio mi faccio raccontare come si sente e quali sono i motivi della chiamata. Aveva i sintomi Covid, tutti, dal primo all’ultimo, come da manuale. A questo punto mi fa la fatidica domanda:

“Secondo lei potrei avere il Coronavirus?”

Sospiro, non posso dargli una risposta in nessun senso, i sintomi li ha, ma finché non si fa un tampone non si può sapere. Allora provo a sdrammatizzare, come faccio sempre.

“Non mi dia del lei, ho solo vent’anni, sono giovane.”

Lui sorride.

“Ascolti signore, adesso facciamo così, visto che io risposte sicure non posso darne, andiamo a fare un controllino in ospedale così vediamo come sta. Va bene?”

Annuisce. A questo punto gli spiego che devo contattare la mia centrale operativa, che mi diranno loro in che ospedale andare.

Chiamo, risponde il solito disco registrato.

Premere 1 paziente urgente, 2 paziente non urgente, 3 non trasporta….

Scelgo e mi mettono in attesa.

…Sala Operativa Regionale Emergenza Urgenza dei Laghi, attendere prego…

Ho aspettato tra i 5 e i 10 minuti circa, in questo periodo è piuttosto normale, tante ambulanze sono fuori tutte insieme e i tempi di risposta sono rallentati, per fortuna la situazione del mio paziente non è critica. Mi risponde un operatore, racconto tutta la storia, ormai in modo meccanico, sono tutte così simili. Dopo una breve conversazione mi comunica l’ospedale di destinazione.

A questo punto ci prepariamo per andare, da lontano chiedo ai miei compagni di preparare l’ambulanza al trasporto. Per fortuna il paziente, seppur debole, cammina e non mi serve una mano per accompagnarlo.

Risalgo in casa, aiuto il signore a mettersi dei vestiti puliti. Vuole mettere una maglietta del Napoli, da Juventina non posso non commentare, poi in questo periodo allentare la tensione fa sempre bene.

“Questa la mette da solo, io non tocco una maglietta napoletana.”

“Tu cosa tifi?”

“Sono una gobba…”

Mi fa una smorfia e sorride.

“Fossero tutti così” mi dice.

Iniziamo a parlare di calcio mentre sistema le ultime cose.

Stiamo per andare via quando vedo una bambina in lacrime nascosta dietro al divano, mi si stringe il cuore.

“Vieni qui a salutare il tuo papà, so che faccio paura vestita così, ma non lo sto portando via, lo accompagno solo dal dottore per guarire, poi può tornare a casa.”

La bambina si avvicina, abbraccia prima il papà e poi me.

“Sei uno dei supereroi che fanno vedere in TV?”

Vorrei tanto essere un supereroe in questo momento…

Salutiamo e iniziamo a scendere le scale, saliamo sull’ambulanza, allacciamo la cintura e partiamo per l’ospedale. Durante il tragitto compilo la relazione di soccorso mentre cerco di tranquillizzare il paziente.

Arrivati in ospedale entriamo e vado al triage, l’infermiere mi saluta, ormai sa anche lui cosa gli devo dire.

Racconto ancora la storia del paziente, lo accompagno nel cosiddetto “percorso sporco”, dove vengono visitati i pazienti sospetti Covid. Ci salutiamo.

Mi sposto nell’area dedicata alla svestizione, mi tolgo il tutone bianco, i guanti e i calzari, stando attenta a non toccare nessuna zona pulita con qualcosa di potenzialmente infetto.

Esco e mi dirigo verso l’ambulanza, che i miei colleghi hanno ripulito e igienizzato da cima a fondo nel frattempo. Mi chiedono com’è andata, mi limito a lamentarmi del caldo e degli occhiali appannati.

Nel tragitto di rientro in sede compilo le ultime cose di burocrazia e chiudo il dossier del paziente sul cellulare di servizio. Così finisce un’altra storia di un paziente qualunque, di un giorno qualunque, durante la pandemia Covid-19.

Io però durante i quindici minuti di strada ripenso a quella bambina che non sa se rivedrà il padre e a tutti i figli che hanno salutato i genitori per l’ultima volta senza saperlo. A mariti e mogli, a fratelli e sorelle. A tutti quelli che hanno perso o hanno paura di perdere le persone a cui tengono.

I numeri che la Protezione Civile comunica quotidianamente sono persone, ognuna con una storia, ognuna con una famiglia, ognuna con un sogno da realizzare. Me ne sono resa conto solo in quel momento.

  • : Gallarate (VA)
  • : 19
  • : Studentessa di medicina e chirurgia, volontaria soccorritrice

Covid-19, grazie a te ho capito che…

Mi presento, mi chiamo Jacopo Ravaioli, ho 22 anni, nella vita sono uno studente universitario iscritto alla Facoltà di Economia Aziendale nella mia città natale, Genova. Dal 2015 sono volontario della Croce Rossa Italiana ed ho fatto davvero tante esperienze: dal lavorare in un campo migranti con picchi di 300 ospiti, all’intervenire durante l’emergenza post crollo del Ponte Morandi, al garantire l’assistenza sanitaria, insieme a 200 colleghi, del Gran Premio di Formula 1 di Montecarlo, al passare un periodo di servizio presso il Comitato di Positano in Costiera Amalfitana e altre esperienze, più o meno importanti, che mi hanno sicuramente segnato definendo, in parte, la persona che sono ora.

Dal 16 febbraio sono stato eletto Consigliere Giovane del Comitato di Genova, una realtà non facile dato che abbiamo quasi 20 dipendenti e varie strutture da gestire. E, insieme alla nostra presidente e i 3 colleghi consiglieri, ci siamo trovati a dover affrontare una situazione che nessuno si sarebbe mai aspettato, un virus… una pandemia… e questo può essere visto come un battesimo del fuoco; fin troppe volte ci siamo sentiti dire: “Se riuscite a superare questa situazione, il resto del mandato sarà tutto in discesa”, e forse è vero, ma è presto per dirlo.

Questo virus è un nemico invisibile, quasi intangibile, che ci costringe a lavorare con dispositivi di protezione individuale che limitano i movimenti, limitano il campo visivo, fanno mancare il respiro e fanno sudare… fanno sudare tantissimo… e ormai ho perso il conto delle ore che ho passato vestito in quel modo, con quelle tute, con quelle mascherine.

12/03/2020, ore 10 circa; è l’orario in cui il 118 di Genova ci ha contattato dicendoci che avevano bisogno di un’ambulanza h24 dedicata al trasporto dei pazienti affetti da Covid-19, da attivare dalle 16 di quel giorno. Noi del Consiglio ci siamo riuniti per decidere come comportarci, naturalmente non ci saremmo mai potuti tirare indietro, quindi ci siamo rimboccati le maniche e ci siamo messi al lavoro e abbiamo fatto preparare l’ambulanza 6005 per dedicarla a questo nuovo e particolare servizio. La cosa che mi ha stupito di più sul momento è stata il tipo di allestimento che la centrale operativa ci richiedeva per il mezzo: un’ambulanza vuota, senza materiale, con solo le bombole di ossigeno e il defibrillatore, più coperta di plastica possibile per semplificare la procedura di sanificazione a base di ipoclorito di sodio e con la possibilità di sigillare e dividere il vano sanitario dal vano di guida, per proteggere gli operatori.

Ore 16, l’ambulanza diventa operativa. Ore 16:15 arriva la prima chiamata e tocca a me partire, insieme ad un collega; tocca a me vestirmi per la prima volta in assoluto nella nostra sede e mentre lo faccio ho paura, è una cosa nuova, non comprendo a pieno quello che sto facendo, ma seguo alla lettera le indicazioni che mi dà il medico Croce Rossa presente in quel momento. Una volta pronti, partiamo, codice giallo, accendiamo le sirene, destinazione Ospedale San Martino, per trasferire un paziente all’Ospedale Evangelico di Voltri, dedicato unicamente alla gestione dei pazienti Covid-19. Il paziente che dobbiamo trasportare è una ragazza di circa 30 anni. Non ricordo il suo nome, ma ricordo il suo sguardo: una ragazza impaurita che non sa cosa le sta succedendo, che sa solo di stare molto male, con 40 di febbre e tanta difficoltà a respirare e sa che è positiva a questo nuovo virus che prima, finché era solo in Cina, dall’altra parte del mondo, sembrava così innocuo, così poco reale.

Durante il trasferimento io sto dietro con lei. Mi chiede se posso accendere il riscaldamento perché ha molto freddo; lo faccio, nonostante stessi già sudando a causa del caldo infernale dato da quella tuta. Mentre siamo in movimento ha voglia di parlare, mi racconta degli ultimi otto giorni passati totalmente da sola chiusa in una stanza e l’unico contatto umano che aveva era una visita del medico, una volta al giorno. Mi racconta di come lui non sapesse mai rispondere a nessuna sua domanda sulla sua condizione, e che volesse solo uscire in fretta dalla stanza, spaventato anche lui dalla situazione. Poi mi racconta un po’ della sua vita: è una commessa in un negozio, nata in un paese della riviera ligure, e trova anche le energie per lamentarsi del fatto di avere i capelli sporchi e pieni di nodi ed io sorrido in quel momento, lei non può vederlo, ma è stato un piccolo ritorno alla normalità che per me, per lei, era davvero surreale. Le ho risposto che stava benissimo, non ci ha creduto, ma ha riso e ne sono davvero felice. Mancava ancora un po’ di strada e, scusandosi, mi ha detto che si sentiva sempre peggio e che le bruciava troppo la gola per continuare a parlare, per quanto lo desiderasse davvero e quindi il resto del viaggio siamo stati in silenzio. Spero davvero che ora stia bene e che sia a casa.

Le giornate successive sono andate sempre allo stesso modo, turni infiniti, centinaia di km fatti con quell’ambulanza. Ormai la vestizione la faccio da solo, è diventata automatica. La paura c’è sempre, ma è parzialmente coperta dall’abitudine; non abbasso la guardia, quello mai, però riesco a svolgere questo servizio rimanendo più tranquillo e sudando solo per il caldo e non anche per l’agitazione.

20/03/2020, è il mio compleanno, compio 22 anni. Naturalmente passo tutto il giorno in servizio, come gli altri giorni, ma la sera i colleghi mi organizzano una piccola festicciola con una torta. Devo dire che è stato un bel momento, erano presenti alcune persone importanti nella mia vita, o che lo erano già da prima di questa situazione, o che lo sarebbero diventate nei giorni a venire, ma sicuramente non credevo che avrei mai festeggiato un compleanno in questo modo, tra un servizio e l’altro, con una torta confezionata del supermercato.

È stato verso gli inizi di aprile che ho iniziato ad accusare i primi segni di cedimento, ho iniziato a sentire davvero la mancanza di cose che prima erano la normalità; uscire a bere una birra con degli amici, andare all’università, ma anche semplicemente vestirmi normalmente e non con la divisa. Ma c’era anche un altro problema che si manifestava quando mi fermavo per riposare: iniziavo a pensare… a chiedermi seriamente se stessi facendo la cosa giusta, perché non l’ho detto, ma viene da sé che io avessi messo in stand-by la mia vita; mentre i miei compagni di università andavano avanti grazie alle lezioni online io stavo lasciando tutto indietro, per potermi dedicare alla Croce Rossa, per poter fare quello che serviva. Mi trovavo in questa scomoda situazione di lotta intestina nella mia testa, portata dal fatto di non poter avere nemmeno un momento di svago, nemmeno dieci minuti dove poter staccare la testa e rilassarmi per smaltire un po’ di stress. Mi sentivo come una pentola a pressione prossima allo scoppio, non più capace di contenere tutto lo stress, la paura, la stanchezza accumulate dall’incredibile monte di ore di servizio fatte, comprendendo, oltre all’impiego in prima persona sulle ambulanze, anche tutta la parte da consigliere, con riunioni da fare per fronteggiare problemi di disponibilità economica del Comitato, problemi riguardanti scontri tra volontari e tra dipendenti che cedevano allo stress della situazione e tutti gli altri problemi legati alla gestione del Comitato. Ma per mia fortuna stava nascendo un qualcosa che mi avrebbe aiutato davvero tanto nei giorni a venire: mi sono legato ad una persona, una collega… una ragazza. Non che sia il periodo migliore per una cosa del genere, ma purtroppo, o per fortuna, sono quel genere di cose che non si possono né prevedere né controllare.

Sarò breve a riguardo, perché non è l’oggetto del racconto, ma ci tengo a parlarne perché, per me, anche questa è stata una parte importante in questa emergenza, forse fondamentale, per riuscire a non andare fuori di testa e cedere. Se dovessi descriverla brevemente concentrerei l’attenzione sulla sua allegria, il suo essere capace di portare il sorriso, anche in situazione difficili, e il suo essere capace di farti capire che lei c’è, ti è vicina; ogni tanto mi bastava incrociare il suo sguardo, mentre correvo avanti e indietro per la sede, e ricevere un suo sorriso, per avere un ritaglio di felicità in quelle frenetiche giornate. Forse troppo spesso, dopo un servizio particolarmente stancante o dopo aver discusso con qualcuno per qualcosa, mi trovavo seduto a non fare niente, a cercare di smaltire lo stress; ed in quel momento arrivava lei, con la sua genuina preoccupazione, a chiedermi cosa succedesse e, non riesco a spiegarmi come, in un modo o nell’altro riusciva sempre a strapparmi un sorriso e a darmi nuova forza per andare avanti. Ed è questo uno dei lati più belli della sua personalità: ha sempre pronta una parola di conforto per il prossimo ed è continuamente pronta a mettersi in gioco per aiutare gli altri; e non parlo solo delle persone che assistiamo, ma anche dei colleghi e della gente che le sta intorno, perché tutti, chi più chi meno, abbiamo bisogno di una persona che ci stia vicino e che ci aiuti, e lei lo fa con il sorriso e mettendoci tutta se stessa. Potrei elencare tante altre doti di questa ragazza, ma come dicevo non è l’oggetto del racconto, quindi mi fermo qui dopo aver parlato del perché è stata così importante per me in questo periodo, ma credo che continuerà ad esserlo per molto tempo.

17/05/2020, oggi, sto scrivendo questo racconto e a mezzanotte finisce la nostra convenzione Covid-19 con il 118. Non dovremo più garantire un mezzo h24 per il trasporto di questi pazienti; questo per “l’oggettivo rallentamento dei contagi”, come scritto sulla loro comunicazione. Molti si sono lamentati di questa scelta. Io, personalmente, mi domando solo se non sia troppo presto per smantellare tutto, ma la scelta non spetta a me, quindi sono semplicemente pronto a prendere atto di quello che succederà e rispondere di conseguenza con i colleghi del consiglio.

È stata un’esperienza surreale, spero non riinizi.

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Cuarentena (IV): seres extraños

Dicen que las palabras no son muy importantes, que no merece la pena discutir por ellas. Pero es debido a ellas por las que vemos el mundo de una u otra manera.

Pedro Sánchez hablaba en su discurso de seres extraños. Es decir, aquellas personas que no conocíamos y ante las que hay que ser cauto por el riesgo al contagio. Mi interpretación de esas palabras fue benigna porque mi visión del mundo lo es. Por más que lo intente, no puedo cruzarme con alguien en la calle y verlo como un ser extraño. No. Puede ser una persona desconocida, pero nunca extraña. Su mascarilla, su edad aparente, sus guantes, su distancia de seguridad en la acera lo acercan más a mí que antes. Ahora comparto con esa persona muchas cosas, visibles e invisibles. Hace unos meses, ese encuentro en la distancia se habría olvidado rápidamente en el trasiego diario. Hoy es inevitable pensar en esas personas que te encuentras en la compra cuando vuelves a casa. Hoy tengo más ganas de mostrar afecto hacia ellas, cuando los medios son más complicados.

Nos han dicho que estamos en una guerra, en lugar de en un reto sanitario; que debemos ser disciplinados, en lugar de solidarios; que somos compatriotas, en lugar de vecinos; que somos extraños, en lugar de desconocidos.

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