Sono le otto meno dieci, ho appena preso lo spruzzino Sandik per igienizzare la divisa. Manca poco alla fine del turno, stiamo aspettando solo l’equipaggio che ci avrebbe dato il cambio per fare la notte.
*Driiiiin Driiiiin Driiiiin*
EMMA inizia a suonare. EMMA è il nome del sistema che ci invia le missioni, è la donna di cui nessun soccorritore in questo periodo vuole sentire la voce.
Subito dopo squilla anche il telefono di servizio
“Ciao, sono Carolina, dimmi…”
“Ciao, è un sospetto Covid, agisci come da protocollo.”
Nonostante ormai siamo abituati a ricevere queste chiamate, un brivido mi pervade la schiena.
Prendo il telefono di servizio e mi avvio verso l’ambulanza. Oggi sono capo equipaggio, come ultimamente mi capita spesso.
…
In ambulanza noi volontari siamo abituati ad uscire in tre: autista, capo equipaggio e terzo soccorritore. Ciò significa che si crea una certa coordinazione, nonostante ciascuno è in grado di fare tutto il necessario, ci si divide i compiti per rendere il servizio più efficace e veloce. L’autista, oltre a guidare, di solito è si occupa del preparare i presidi per il trasporto del paziente. Nel frattempo il capo equipaggio ed il soccorritore si approcciano al paziente, il primo facendo tante domande per capire la situazione, il secondo prendendo i parametri vitali.
In questo periodo ogni uscita, o quasi, necessita di essere trattata come sospetto Covid-19, quindi, per risparmiare i dispositivi di protezione individuale, inizialmente solo il capo equipaggio si prepara ed entra in contatto con il paziente, ricoprendo tutti e tre i ruoli.
Io ho fatto l’esame per accreditarmi come soccorritore relativamente da poco, in uscita fino a gennaio ho fatto il terzo, a inizio febbraio ho iniziato ad uscire come capo equipaggio, spalleggiata dalla mia squadra, che mi accompagnava con l’esperienza, mi faceva notare cosa poteva essere fatto diversamente.
A fine febbraio è arrivato il Covid ed è cambiato tutto. Non ho nessuno a fianco, devo ricordare tutto da sola.
So di essere in grado, ma la paura c’è sempre.
L’autista è la mia caposquadra, mi volge uno sguardo dolce e mi chiede se sono pronta. Sa anche lei che ho poca esperienza, ma dice sempre che sono una tosta. È preoccupata e si vede, ma so che crede in me.
Apro il portellone laterale dell’ambulanza, prendo tutto il necessario per prepararmi ad uscire. Indosso un primo paio di guanti e il tutone in Tyvek bianco, come quelli che si vedono in TV, che mi sta largo come sempre, ed inizio a sentire il caldo. I miei colleghi mi allacciano la cerniera e mi infilano i calzari. Lego i capelli e indosso la mascherina FFP2 e la maschera per gli occhi, che intanto si è già appannata. Indosso il secondo paio di guanti e mi sigillano la tuta.
Mi chiedono se sono pronta, io sorrido anche se non si nota e alzo il pollice. Sono sempre positiva.
Si parte, è un codice giallo, accendiamo la sirena.
In ambulanza scrivo ad un mio amico, è anche lui un soccorritore, lo fa da tanto tempo più di me, anche lui è preoccupato per me nonostante ne abbia viste tante, mi dice di stare attenta.
Mando un messaggio anche ai miei genitori, che mi stanno aspettando per cena, dicendo che arrivo in ritardo perché siamo usciti a fine turno.
La mia autista mi dice che siamo arrivati, mi guarda e mi chiede una volta ancora se sono pronta.
Non si è mai davvero pronti, ma dico sì.
Scendo dall’ambulanza, prendo il necessario per provare i parametri e mi avvio. Suono il citofono:
“Salve, sono Carolina, della Croce Rossa.”
Mi aprono, salgo due o tre rampe di scale, arrivo fino ad una porta aperta, c’è una donna che mi sta aspettando.
Come di prassi chiedo cosa sia successo, anche se dentro di me già lo so. La donna mi porta in camera dal marito. Mentre prendo i parametri e li registro sul telefono di servizio mi faccio raccontare come si sente e quali sono i motivi della chiamata. Aveva i sintomi Covid, tutti, dal primo all’ultimo, come da manuale. A questo punto mi fa la fatidica domanda:
“Secondo lei potrei avere il Coronavirus?”
Sospiro, non posso dargli una risposta in nessun senso, i sintomi li ha, ma finché non si fa un tampone non si può sapere. Allora provo a sdrammatizzare, come faccio sempre.
“Non mi dia del lei, ho solo vent’anni, sono giovane.”
Lui sorride.
“Ascolti signore, adesso facciamo così, visto che io risposte sicure non posso darne, andiamo a fare un controllino in ospedale così vediamo come sta. Va bene?”
Annuisce. A questo punto gli spiego che devo contattare la mia centrale operativa, che mi diranno loro in che ospedale andare.
Chiamo, risponde il solito disco registrato.
Premere 1 paziente urgente, 2 paziente non urgente, 3 non trasporta….
Scelgo e mi mettono in attesa.
…Sala Operativa Regionale Emergenza Urgenza dei Laghi, attendere prego…
Ho aspettato tra i 5 e i 10 minuti circa, in questo periodo è piuttosto normale, tante ambulanze sono fuori tutte insieme e i tempi di risposta sono rallentati, per fortuna la situazione del mio paziente non è critica. Mi risponde un operatore, racconto tutta la storia, ormai in modo meccanico, sono tutte così simili. Dopo una breve conversazione mi comunica l’ospedale di destinazione.
A questo punto ci prepariamo per andare, da lontano chiedo ai miei compagni di preparare l’ambulanza al trasporto. Per fortuna il paziente, seppur debole, cammina e non mi serve una mano per accompagnarlo.
Risalgo in casa, aiuto il signore a mettersi dei vestiti puliti. Vuole mettere una maglietta del Napoli, da Juventina non posso non commentare, poi in questo periodo allentare la tensione fa sempre bene.
“Questa la mette da solo, io non tocco una maglietta napoletana.”
“Tu cosa tifi?”
“Sono una gobba…”
Mi fa una smorfia e sorride.
“Fossero tutti così” mi dice.
Iniziamo a parlare di calcio mentre sistema le ultime cose.
Stiamo per andare via quando vedo una bambina in lacrime nascosta dietro al divano, mi si stringe il cuore.
“Vieni qui a salutare il tuo papà, so che faccio paura vestita così, ma non lo sto portando via, lo accompagno solo dal dottore per guarire, poi può tornare a casa.”
La bambina si avvicina, abbraccia prima il papà e poi me.
“Sei uno dei supereroi che fanno vedere in TV?”
Vorrei tanto essere un supereroe in questo momento…
Salutiamo e iniziamo a scendere le scale, saliamo sull’ambulanza, allacciamo la cintura e partiamo per l’ospedale. Durante il tragitto compilo la relazione di soccorso mentre cerco di tranquillizzare il paziente.
Arrivati in ospedale entriamo e vado al triage, l’infermiere mi saluta, ormai sa anche lui cosa gli devo dire.
Racconto ancora la storia del paziente, lo accompagno nel cosiddetto “percorso sporco”, dove vengono visitati i pazienti sospetti Covid. Ci salutiamo.
Mi sposto nell’area dedicata alla svestizione, mi tolgo il tutone bianco, i guanti e i calzari, stando attenta a non toccare nessuna zona pulita con qualcosa di potenzialmente infetto.
Esco e mi dirigo verso l’ambulanza, che i miei colleghi hanno ripulito e igienizzato da cima a fondo nel frattempo. Mi chiedono com’è andata, mi limito a lamentarmi del caldo e degli occhiali appannati.
Nel tragitto di rientro in sede compilo le ultime cose di burocrazia e chiudo il dossier del paziente sul cellulare di servizio. Così finisce un’altra storia di un paziente qualunque, di un giorno qualunque, durante la pandemia Covid-19.
Io però durante i quindici minuti di strada ripenso a quella bambina che non sa se rivedrà il padre e a tutti i figli che hanno salutato i genitori per l’ultima volta senza saperlo. A mariti e mogli, a fratelli e sorelle. A tutti quelli che hanno perso o hanno paura di perdere le persone a cui tengono.
I numeri che la Protezione Civile comunica quotidianamente sono persone, ognuna con una storia, ognuna con una famiglia, ognuna con un sogno da realizzare. Me ne sono resa conto solo in quel momento.
- : Gallarate (VA)
- : 19
- : Studentessa di medicina e chirurgia, volontaria soccorritrice