Covid-19, grazie a te ho capito che…

Mi presento, mi chiamo Jacopo Ravaioli, ho 22 anni, nella vita sono uno studente universitario iscritto alla Facoltà di Economia Aziendale nella mia città natale, Genova. Dal 2015 sono volontario della Croce Rossa Italiana ed ho fatto davvero tante esperienze: dal lavorare in un campo migranti con picchi di 300 ospiti, all’intervenire durante l’emergenza post crollo del Ponte Morandi, al garantire l’assistenza sanitaria, insieme a 200 colleghi, del Gran Premio di Formula 1 di Montecarlo, al passare un periodo di servizio presso il Comitato di Positano in Costiera Amalfitana e altre esperienze, più o meno importanti, che mi hanno sicuramente segnato definendo, in parte, la persona che sono ora.

Dal 16 febbraio sono stato eletto Consigliere Giovane del Comitato di Genova, una realtà non facile dato che abbiamo quasi 20 dipendenti e varie strutture da gestire. E, insieme alla nostra presidente e i 3 colleghi consiglieri, ci siamo trovati a dover affrontare una situazione che nessuno si sarebbe mai aspettato, un virus… una pandemia… e questo può essere visto come un battesimo del fuoco; fin troppe volte ci siamo sentiti dire: “Se riuscite a superare questa situazione, il resto del mandato sarà tutto in discesa”, e forse è vero, ma è presto per dirlo.

Questo virus è un nemico invisibile, quasi intangibile, che ci costringe a lavorare con dispositivi di protezione individuale che limitano i movimenti, limitano il campo visivo, fanno mancare il respiro e fanno sudare… fanno sudare tantissimo… e ormai ho perso il conto delle ore che ho passato vestito in quel modo, con quelle tute, con quelle mascherine.

12/03/2020, ore 10 circa; è l’orario in cui il 118 di Genova ci ha contattato dicendoci che avevano bisogno di un’ambulanza h24 dedicata al trasporto dei pazienti affetti da Covid-19, da attivare dalle 16 di quel giorno. Noi del Consiglio ci siamo riuniti per decidere come comportarci, naturalmente non ci saremmo mai potuti tirare indietro, quindi ci siamo rimboccati le maniche e ci siamo messi al lavoro e abbiamo fatto preparare l’ambulanza 6005 per dedicarla a questo nuovo e particolare servizio. La cosa che mi ha stupito di più sul momento è stata il tipo di allestimento che la centrale operativa ci richiedeva per il mezzo: un’ambulanza vuota, senza materiale, con solo le bombole di ossigeno e il defibrillatore, più coperta di plastica possibile per semplificare la procedura di sanificazione a base di ipoclorito di sodio e con la possibilità di sigillare e dividere il vano sanitario dal vano di guida, per proteggere gli operatori.

Ore 16, l’ambulanza diventa operativa. Ore 16:15 arriva la prima chiamata e tocca a me partire, insieme ad un collega; tocca a me vestirmi per la prima volta in assoluto nella nostra sede e mentre lo faccio ho paura, è una cosa nuova, non comprendo a pieno quello che sto facendo, ma seguo alla lettera le indicazioni che mi dà il medico Croce Rossa presente in quel momento. Una volta pronti, partiamo, codice giallo, accendiamo le sirene, destinazione Ospedale San Martino, per trasferire un paziente all’Ospedale Evangelico di Voltri, dedicato unicamente alla gestione dei pazienti Covid-19. Il paziente che dobbiamo trasportare è una ragazza di circa 30 anni. Non ricordo il suo nome, ma ricordo il suo sguardo: una ragazza impaurita che non sa cosa le sta succedendo, che sa solo di stare molto male, con 40 di febbre e tanta difficoltà a respirare e sa che è positiva a questo nuovo virus che prima, finché era solo in Cina, dall’altra parte del mondo, sembrava così innocuo, così poco reale.

Durante il trasferimento io sto dietro con lei. Mi chiede se posso accendere il riscaldamento perché ha molto freddo; lo faccio, nonostante stessi già sudando a causa del caldo infernale dato da quella tuta. Mentre siamo in movimento ha voglia di parlare, mi racconta degli ultimi otto giorni passati totalmente da sola chiusa in una stanza e l’unico contatto umano che aveva era una visita del medico, una volta al giorno. Mi racconta di come lui non sapesse mai rispondere a nessuna sua domanda sulla sua condizione, e che volesse solo uscire in fretta dalla stanza, spaventato anche lui dalla situazione. Poi mi racconta un po’ della sua vita: è una commessa in un negozio, nata in un paese della riviera ligure, e trova anche le energie per lamentarsi del fatto di avere i capelli sporchi e pieni di nodi ed io sorrido in quel momento, lei non può vederlo, ma è stato un piccolo ritorno alla normalità che per me, per lei, era davvero surreale. Le ho risposto che stava benissimo, non ci ha creduto, ma ha riso e ne sono davvero felice. Mancava ancora un po’ di strada e, scusandosi, mi ha detto che si sentiva sempre peggio e che le bruciava troppo la gola per continuare a parlare, per quanto lo desiderasse davvero e quindi il resto del viaggio siamo stati in silenzio. Spero davvero che ora stia bene e che sia a casa.

Le giornate successive sono andate sempre allo stesso modo, turni infiniti, centinaia di km fatti con quell’ambulanza. Ormai la vestizione la faccio da solo, è diventata automatica. La paura c’è sempre, ma è parzialmente coperta dall’abitudine; non abbasso la guardia, quello mai, però riesco a svolgere questo servizio rimanendo più tranquillo e sudando solo per il caldo e non anche per l’agitazione.

20/03/2020, è il mio compleanno, compio 22 anni. Naturalmente passo tutto il giorno in servizio, come gli altri giorni, ma la sera i colleghi mi organizzano una piccola festicciola con una torta. Devo dire che è stato un bel momento, erano presenti alcune persone importanti nella mia vita, o che lo erano già da prima di questa situazione, o che lo sarebbero diventate nei giorni a venire, ma sicuramente non credevo che avrei mai festeggiato un compleanno in questo modo, tra un servizio e l’altro, con una torta confezionata del supermercato.

È stato verso gli inizi di aprile che ho iniziato ad accusare i primi segni di cedimento, ho iniziato a sentire davvero la mancanza di cose che prima erano la normalità; uscire a bere una birra con degli amici, andare all’università, ma anche semplicemente vestirmi normalmente e non con la divisa. Ma c’era anche un altro problema che si manifestava quando mi fermavo per riposare: iniziavo a pensare… a chiedermi seriamente se stessi facendo la cosa giusta, perché non l’ho detto, ma viene da sé che io avessi messo in stand-by la mia vita; mentre i miei compagni di università andavano avanti grazie alle lezioni online io stavo lasciando tutto indietro, per potermi dedicare alla Croce Rossa, per poter fare quello che serviva. Mi trovavo in questa scomoda situazione di lotta intestina nella mia testa, portata dal fatto di non poter avere nemmeno un momento di svago, nemmeno dieci minuti dove poter staccare la testa e rilassarmi per smaltire un po’ di stress. Mi sentivo come una pentola a pressione prossima allo scoppio, non più capace di contenere tutto lo stress, la paura, la stanchezza accumulate dall’incredibile monte di ore di servizio fatte, comprendendo, oltre all’impiego in prima persona sulle ambulanze, anche tutta la parte da consigliere, con riunioni da fare per fronteggiare problemi di disponibilità economica del Comitato, problemi riguardanti scontri tra volontari e tra dipendenti che cedevano allo stress della situazione e tutti gli altri problemi legati alla gestione del Comitato. Ma per mia fortuna stava nascendo un qualcosa che mi avrebbe aiutato davvero tanto nei giorni a venire: mi sono legato ad una persona, una collega… una ragazza. Non che sia il periodo migliore per una cosa del genere, ma purtroppo, o per fortuna, sono quel genere di cose che non si possono né prevedere né controllare.

Sarò breve a riguardo, perché non è l’oggetto del racconto, ma ci tengo a parlarne perché, per me, anche questa è stata una parte importante in questa emergenza, forse fondamentale, per riuscire a non andare fuori di testa e cedere. Se dovessi descriverla brevemente concentrerei l’attenzione sulla sua allegria, il suo essere capace di portare il sorriso, anche in situazione difficili, e il suo essere capace di farti capire che lei c’è, ti è vicina; ogni tanto mi bastava incrociare il suo sguardo, mentre correvo avanti e indietro per la sede, e ricevere un suo sorriso, per avere un ritaglio di felicità in quelle frenetiche giornate. Forse troppo spesso, dopo un servizio particolarmente stancante o dopo aver discusso con qualcuno per qualcosa, mi trovavo seduto a non fare niente, a cercare di smaltire lo stress; ed in quel momento arrivava lei, con la sua genuina preoccupazione, a chiedermi cosa succedesse e, non riesco a spiegarmi come, in un modo o nell’altro riusciva sempre a strapparmi un sorriso e a darmi nuova forza per andare avanti. Ed è questo uno dei lati più belli della sua personalità: ha sempre pronta una parola di conforto per il prossimo ed è continuamente pronta a mettersi in gioco per aiutare gli altri; e non parlo solo delle persone che assistiamo, ma anche dei colleghi e della gente che le sta intorno, perché tutti, chi più chi meno, abbiamo bisogno di una persona che ci stia vicino e che ci aiuti, e lei lo fa con il sorriso e mettendoci tutta se stessa. Potrei elencare tante altre doti di questa ragazza, ma come dicevo non è l’oggetto del racconto, quindi mi fermo qui dopo aver parlato del perché è stata così importante per me in questo periodo, ma credo che continuerà ad esserlo per molto tempo.

17/05/2020, oggi, sto scrivendo questo racconto e a mezzanotte finisce la nostra convenzione Covid-19 con il 118. Non dovremo più garantire un mezzo h24 per il trasporto di questi pazienti; questo per “l’oggettivo rallentamento dei contagi”, come scritto sulla loro comunicazione. Molti si sono lamentati di questa scelta. Io, personalmente, mi domando solo se non sia troppo presto per smantellare tutto, ma la scelta non spetta a me, quindi sono semplicemente pronto a prendere atto di quello che succederà e rispondere di conseguenza con i colleghi del consiglio.

È stata un’esperienza surreale, spero non riinizi.

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